Eticredito, la storia di una banca diversa

Dopo la crisi finanziaria del 2008, che ha messo in difficoltà parecchie banche, tanti avranno sentito ripetere fino alla noia che andavano salvate, sempre con soldi pubblici, perché "troppo grandi per fallire". Tradotto vuol dire che il danno, per i risparmiatori, gli azionisti e l’intera economia, di un loro fallimento sarebbe stato superiore al costo per salvarle. Quanto sia vera questa ipotesi è comunque da dimostrare, rispetto all’efficienza del sistema, quanto per le ricadute sui singoli.

Paradossalmente, se invece siete una piccola banca, raccogliete denaro sul territorio, erogate piccoli prestiti, sostenete progetti e nuove imprese a forte valenza etico-sociale, facendo affidamento sulla responsabilità e la voglia di intraprendere e di riscatto delle persone con mezzi propri, il problema salvezza non si pone.

Siete così piccoli, il danno che fate è così marginale, che potete tranquillamente chiudere. Magari, e questo è il secondo paradosso, non prima di aver trasferito il vostro capitale sociale, raccolto tra tante persone e imprese socialmente motivate, in una banca complementare, nonché azionista, come era la Carim, enormemente più in difficoltà di voi, ma per ragioni diverse e ben più gravi.

E’ quello che è capitato ad Eticredito, una banca nata sulla scia della finanza etica, purtroppo in un periodo critico, quando cioè scoppiava la più grande crisi finanziaria dopo quella del 1929, che per questo ha dovuto fronteggiare, nei suoi primi anni di vita, i normali ostacoli di qualsiasi nuova impresa, più quelli aggiunti dalla crisi, prima finanziaria poi economica, che non l’hanno certo favorita. Nonostante, questo va sottolineato, Eticredito praticamente non registrasse crediti deteriorati.

I primi bilanci di Eticredito hanno risentito, negativamente, degli oneri di avviamento più del previsto. Ma inattesa era anche la crisi.

Comunque niente che non fosse gestibile, come infatti gli ultimi dati, quando le perdite si sono drasticamente ridotte, da 850 mila euro del 2010 a 25 mila euro del 2012, cominciavano a dimostrare. Sarebbe stato sufficiente attendere qualche anno in più, e magari ricevere da Banca Carim quel supporto amministrativo e promozionale promesso e mai arrivato, che avrebbe sgravato Eticredito di tanti costi, consentendole di camminare in acque più tranquille.

Ma così non è stato. Al contrario, dopo la prima verifica della Banca d’Italia, gli ispettori, non senza avere riconosciuto la validità e la correttezza del lavoro svolto, consigliano, per fare massa critica, di accorpare di fatto Eticredito a Banca Carim, trasferendo in toto il suo capitale sociale, 14 milioni di euro, nella casse di quest’ultima, che si trovava in difficoltà ben maggiori e strutturali.

Il risultato è stato che questa operazione non è servita, come è noto, a salvare Banca Carim, mentre sarebbe bastato infinitamente meno per rimettere su binari di sostenibilità Eticredito e salvare il capitale degli investitori, praticamente azzerato.

Eticredito che già il primo anno, il 2006, e con un solo sportello, era riuscita a raccogliere 5,2 milioni di risparmi, cresciuti ininterrottamente sino ad arrivare a 40 milioni nel 2012. Quando cesserà di funzionare.

Con impieghi, che nello stesso periodo, avendo raggiunto un tetto di 2.800 clienti, salivano da 3,7 milioni a 35,1 milioni di euro. Con un grosso ruolo, proprio a ridosso della crisi, giocato dal microcredito. Prestiti di poche migliaia di euro, che nessuna banca concede, ma fondamentali per le persone in difficoltà. Senza dimenticare la presenza, tra i clienti, di numerosi immigrati, che in una fase coprivano quasi un terzo della clientela. Immigrati che si sono dimostrati solvibili più di tanti autoctoni.

Ora tutto questo non c’è più e il territorio ha perso sia la "sua" banca di riferimento, passata a Crédit Agricole, che Eticredito. Proprio in un momento in cui, a seguito della crisi sanitaria, un istituto bancario vicino ai meno fortunati sarebbe stato di grande utilità, economica e sociale.

L’insegnamento di questa storia è comunque chiaro: una banca troppo grande per fallire le Autorità preposte faranno di tutto per salvarla, per le altre, tanto più se tra la clientela annoverano persone e imprese che una normale banca, considera non bancabili, si farà pesare, senz’altra considerazione, la scure dei bilanci.

Questo libro ha la pretesa di rendere testimonianza di una buona idea, sostenuta da tante persone e imprese di buona volontà, interrotta troppo presto e finita in un gioco più grande di lei. Lasciando il territorio più povero e con meno risorse a disposizione, nel silenzio generale.

Perché, come ricorda il prof. Zamagni nella sua prefazione, si dimentica troppo spesso che l’idea fondativa del Monte di Pietà, che precede la finanza etica, era proprio che "il credito va concesso al povero perché questi possa essere aiutato ad uscire dalla sua condizione e a chi ha progetti da realizzare".

Zamagni poi conclude con una domanda tuttora aperta: a chi spetta definire l’obiettivo rispetto al quale misurare l’efficienza della performance economica di un soggetto ?

Aggiungiamo noi: perché mai devono esistere solo grandi gruppi bancari e vanno applicate le stesse regole a tutti, senza nessun riguardo per il diverso ruolo economico e sociale che svolgono ?

Eticredito non c’è più, ma le domande, in attesa di risposte, restano ancora valide. Ma un fatto è certo: oggi, siamo tutti più poveri.


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